
TL;DR: un’analisi metrica di alcune traduzioni italiane edite di un emblematico componimento tratto dall’opera magna di J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli.
Consiglio di leggere tutto in ordine, ma per convenienza includo qui un sommario:
INDICE
Premesse Fondamentali
Non ci sarà possibile trarre conclusioni definitive e generali sulle stesse, poiché «per illuminare a dovere un testo letterario dovremmo usare sempre più riflettori: noi invece ci serviremo solo di quello metrico» (v. Aldo Menichetti, Prima lezione di metrica, ed. Laterza, 2013).
Tuttavia, preferisco peccare per eccesso di chiarezza ed esplicitare sin da subito che:
- l’argomento cardine di questa disamina è la musicalità – sorvolando quasi del tutto su altri aspetti, per quanto rilevanti ai fini traduttivi, linguistici e filologici;
- i commenti svolti sono (quanto più possibile) oggettivi, ovvero emergono strettamente dal testo o da opportune fonti – senza aggiungere giudizi di gusto o gradimento soggettivo.
- i commenti svolti sono (quanto più possibile) fattuali, ovvero non opinativi – con adeguate osservazioni laddove ciò non sia del tutto riscontrabile.
Vi invito a verificare le mie parole: è il metodo migliore per accrescere la conoscenza, mia e vostra.
Nonostante l’evidente natura tecnica, si tratta di un articolo rivolto a tutti – anche a chi dovesse essere completamente a digiuno di qualsivoglia nozione teorica di poesia; anzi: soprattutto a questi ultimi, dal momento che i più esperti saranno già in grado di condurre analisi per proprio conto.
Pertanto, se alcuni passaggi dovessero risultare particolarmente ostici, vi prego di farmelo notare nei commenti qui sotto: sono aperto, come sempre, ad ogni tipo di suggerimento.
Nota di trasparenza: un po’ di storia
Quest’articolo nasce dalle ceneri di uno pubblicato il 10 ottobre 2019 – a ridosso della divulgazione della quarta di copertina della più recente edizione de La Compagnia dell’Anello, avvenuta solo tre giorni addietro – e poi rimosso il 2 febbraio 2020 per questi motivi.
L’articolo originario rispecchiava la mia reazione perplessa alla nuova versione della poesia, così differente da quella che ricordavo (vagamente, e per lo più grazie ai celeberrimi versi dell’Anello). Accusai una perdita di liricità e ritmo: così, da poeta e musicista, ma anche e soprattutto da buon nerd letterario, misi in atto una sorta di reverse engineering poetica – destrutturando entrambe le traduzioni dal punto di vista metrico, alla ricerca delle radici di queste mie impressioni.
Confrontare due testi non è di per sé sbagliato: lo diventa quando si inferisce arbitrariamente più di quanto se ne possa oggettivamente desumere – ad esempio, nella fattispecie, sbilanciandosi circa la correttezza di una scelta traduttiva sulla base di presupposti incompleti. Ammetto candidamente di aver commesso, all’epoca, simili errori: ne ho rimosso le tracce non per vergogna (dopotutto, «nessuno nasce imparato»), ma per gli stessi motivi di cui sopra; e cioè, in altre parole, per dissipare la cattiva informazione (tolkieniana e non) pubblicamente disponibile in rete.
In prima battuta mi ero ripromesso semplicemente di recuperare lo stesso post, epurandolo da ogni imprecisione e divagazione; ho poi optato invece per una riscrittura pressoché completa, più ordinata e focalizzata. Idealmente, questa sarebbe parte intermedia di una collezione di articoli a più ampio respiro, sulla falsariga della mini-serie sulla poesia di Aragorn – in maniera ancor più approfondita, stavolta, prendendo in considerazione anche i risvolti più prettamente tolkieniani.
Infine, come già detto – ma repetita iuvant – non discuteremo delle scelte di traduzione, in quanto ciò richiederebbe un’analisi pregressa: il componimento ingloba numerosissimi avvenimenti legati al passato della Terra di Mezzo, che pure assumono estremo rilievo nella logica dell’universo creato da Tolkien. Tuttavia, Il Signore degli Anelli restituisce solo informazioni frammentarie in merito: ad esempio, eccezion fatta per i due versi relativi all’Unico Anello, non è dato sapere da chi né in che lingua sia stato scritto – il che rende necessario un certosino lavoro di ricerca (sia all’interno che all’esterno del legendarium) ed il vaglio di un buon numero di speculazioni, dal momento che si tratta di aspetti imprescindibili ai fini di una buona traduzione tolkieniana.
E dopo aver rapidamente esplorato passato, presente e futuro di questo articolo… incominciamo!
Poesia originale e traduzioni
Per prima cosa, cerchiamo di capire bene di che cosa stiamo parlando.
A proposito della poesia originale: restando all’interno della storia, come appena accennato, non si sa chi l’abbia scritta né in che lingua; tuttavia, tirandocene fuori per un attimo, nel mondo reale è stata composta da J.R.R. Tolkien in inglese. Che io sappia, ne esiste un’unica versione edita: nel momento in cui scrivo, le sole varianti nelle quali mi sono imbattuto, ascrivibili allo stesso autore, sono delle bozze antecedenti alla prima pubblicazione e raccolte nel sesto volume di The History of Middle-earth a cura di suo figlio Christopher Tolkien.
A proposito delle traduzioni: nel corso di molteplici edizioni e ristampe, sono state pubblicate varie versioni italiane di questo componimento. Vi risparmierei con sommo piacere la storia editoriale, ma sento il dovere morale di far luce su alcune zone d’ombra. Partiamo dalla seguente notazione, che ho spesso visto adoperare per distinguere fra le tre più conosciute; in ordine cronologico:
- versione Alliata (o A) – dalla traduzione di Vittoria Alliata di Villafranca;
- versione Alliata/Principe (o A/P) – dopo la curatela di Quirino Principe;
- versione Fatica (o F) – dalla nuova traduzione di Ottavio Fatica.
Questa classificazione, pur avendo una sua ragion d’essere in relazione agli interventi editoriali, sulla traduzione della Strofa degli Anelli non dice tutto e non lo dice bene: tanto per cominciare, ne esclude la versione proposta da Elémire Zolla nella sua introduzione (che segnalo unicamente per amor di completezza); inoltre, non ne menziona una (sia pur lievissima) variante della seconda, da cui differisce perché «lo zelante e un po’ interventista Fenoglio aveva trasformato gli “Elfi” in “Gnomi”, restaurando la soluzione della Alliata» (v. Quirino Principe, “Note sulla vicenda editoriale di Tolkien in Italia” (PDF), Endóre Numero Cinque, Brescia, 2002).
Avendo citato quest’ultimo articolo, debbo pur mettere in guardia i lettori tolkieniani meno esperti da alcune imprecisioni fattuali, che potrebbero passare per vere per via del tono perentorio con cui sono presentate. Beninteso, chiunque è liberissimo di raccontare la propria personale visione come meglio crede, ma non basta parlare «in nome della verità» per esprimere una verità oggettiva: è logicamente fallace definire «semanticamente sbagliato» il risultato di soluzioni che scaturiscono direttamente dalla mitopoietica tolkieniana, adducendo peraltro giustificazioni confutabili proprio dalle «intricate appendici» che lo stesso curatore ha affermato di aver riscritto «da cima a fondo».
Non una parola, invece, sulle poesie – nemmeno in un’intervista in cui si è premurato di ribadire la ricostruzione delle appendici e ha definito il suo lavoro, ironia della sorte, «una fatica capillare» (v. Quirino Principe: “Odio me stesso e odio ubbidire, coltivo l’arte luciferina di dire no” – Repubblica.it – enfasi mia).
Sembrerebbe lecito e persino logico attribuire qualsiasi modifica al curatore; eppure, in questo caso specifico è pubblicamente disponibile una smentita ufficiale. A tal riguardo, ecco le testuali parole di Vittoria Alliata: «la poesia dell’anello è stata riveduta da me con Alfredo Cattabiani, prima di consegnare il dattiloscritto a Quirino Principe» (v. Sessione pomeridiana evento Macerata In diretta Vittoria Alliata | Lo show di Radio ” La Voce Di Arda “, min. 9:08).
Sebbene non vi siano motivi per dubitarne, nemmeno possiamo prendere per oro colato una testimonianza orale e non supportata da evidenze – che pure, per quanto ne sappiamo, potrebbero oramai non esistere più. Come minimo, sarebbe opportuno interpellare anche tutte le altre parti in causa; tuttavia, non potendo i morti contribuire al dibattito, auspicherei perlomeno l’intervento del curatore – ancor dotato della facoltà di rispondere. Una sua eventuale conferma ci tirerebbe fuori da questo limbo, poiché ci ritroviamo nell’infelice situazione di non poter attribuire con certezza un’opera, con implicazioni etiche (e legali) che esulano largamente dai nostri scopi.
Quantunque di scarsa rilevanza per questa disamina, che riguarda i testi e non gli autori, ho voluto condividere le considerazioni di cui sopra animato dallo stesso «proposito di raggiungimento della verità che anima la ricerca filosofica e scientifica» (v. Incomunicabilità: un problema di definizioni – KELOSOFIA – indulgetemi l’autocitazione: si tratta pur sempre di pensieri miei).
A maggior ragione ho voluto riportare questi aneddoti perché ancora oggi la rete è piena di articoli che propagano in merito imprecisioni storiche rivestendole di sicurezza – spesso in buona fede, ma cionondimeno ottenebrando la verità fattuale.
Dal canto mio, sperando di averle reso un servizio sufficientemente buono negli ultimi paragrafi, mi adeguerò alla notazione già elencata sopra. E, per fugare ogni dubbio, specificherò tra parentesi l’edizione e l’anno di pubblicazione degli estratti esaminati.
Definizioni preliminari
Per evitare di incorrere nell’annoso «problema di definizioni» già trattato altrove, dobbiamo innanzitutto metterci d’accordo sul significato di metrica e ritmo.
Ai nostri fini, possiamo liquidare la metrica in una frase, prendendo a prestito una generica definizione: «il complesso delle leggi che regolano la composizione dei versi e delle strofe» (v. mètrica in Vocabolario – Treccani). Lascio alla curiosità di chi legge il desiderio di approfondire: sull’argomento si possono riempire fior di manuali, che in effetti non scarseggiano (ne ho raccolti alcuni in calce a questo articolo); e per chi non fosse così motivato, ma pur sempre curioso, la scoperta – armandosi di una massiccia dose di spirito critico, che comunque non dovrebbe mai mancare – può partire anche dal web (cfr. metrica nell’Enciclopedia Treccani, l’ottimo Breviario di metrica italiana di Luca Storti, la rubrica La metrica italiana di Mario Macioce… ed ovviamente, ma non senza un pizzico di sana diffidenza, sua maestà Google – o Wikipedia, l’enciclopedia libera per eccellenza).
Piuttosto, voglio spendere due paroline sul ritmo: come ben sanno i musicisti, il tempo può essere suddiviso principalmente in due modi basilari, originando un ritmo binario o ternario. Per i non addetti ai lavori, la differenza è molto semplice da individuare: basti pensare ad una marcia (UN-due, UN-due) o ad un valzer (TUM-pa-pa, TUM-pa-pa).
Ciò vale tanto nella musica quanto nella poesia italiana: ricorrendo ad un’analogia di massima, le sillabe accentate giocano il ruolo del battere e quelle atone corrispondono al levare.
Apro qui una piccola parentesi: nella metrica classica, adoperata nella poesia greca e latina, l’unità base del verso era il piede, ossia un raggruppamento di sillabe. Con i dovuti accorgimenti, possiamo ancora oggi prenderlo come unità ritmica di riferimento – al pari di quanto avviene nella metrica inglese, per esempio.
In questo senso, il ritmo binario ha quindi due configurazioni possibili: il piede trocheo (FORTE-debole) o il giambo (debole-FORTE). Il ternario invece ne ha tre: dattilo (F-d-d), anfibraco (d-F-d) e anapesto (d-d-F).
Forti di queste nuove conoscenze, siamo quasi pronti per scandagliare i versi alla ricerca di questa fantomatica musicalità! Ma prima… è arrivato il momento di presentare quello che, nella lingua di Tolkien, si direbbe un proverbiale elefante nella stanza (cfr. Elephant in the room – Wikipedia).
Andiamo con ordine: cosa significa “musicalità”?
Stavolta non ci aiutano i dizionari, che ci danno solo definizioni tautologiche. Dal punto di vista grammaticale, infatti, è una questione banale: banalmente, una banalità; sicché dobbiamo fare affidamento al senso che intuitivamente già conosciamo.
La musicalità si riferisce dunque a ciò che è musicale, che ha un andamento armonioso, che suona bene, che è eufonico, che è melodioso o che, comunque la si metta, risulti gradevole all’orecchio – ma di chi? Ciascuna di queste parole implica una valutazione individuale.
Allora, riflettendoci su solo un attimo, ci accorgiamo che non se ne può parlare in termini assoluti: ogni percezione, in senso psicologico, è sempre intrinsecamente soggettiva (compresa quella dei suoni, cfr. Psicoacustica – Wikipedia) – che è poi il medesimo motivo per cui non tutti amiamo la stessa musica, benché l’armonia tra due suoni sia regolata da leggi universali (basate su principi fisici e matematici).
Discorso analogo per la musicalità: il verdetto è soggettivo, ma alcuni dei parametri su cui si basa sono oggettivi – proprio come la sensazione di caldo o freddo è soggettiva, ma la temperatura è oggettiva. L’unica differenza è che, anziché provare una sensazione, maturiamo essenzialmente un giudizio estetico; e le scelte di gusto sono insindacabilmente personali, come ben sapevano i latini (cfr. De gustibus non est disputandum – Wikipedia).
Ecco perché, volendo compiere una disamina intersoggettiva (e non esprimere una mia opinione), non posso far altro che concentrarmi sui fatti – lasciando ad ognuno di voi le interpretazioni.
Analisi metrica e ritmica
Dopo una lunga ma necessaria introduzione, possiamo finalmente avventurarci nei testi!
Tolkien (ed. Allen & Unwin, 1954)
Three Rings for the Elven-kings under the sky,
Seven for the Dwarf-lords in their halls of stone,
Nine for Mortal Men doomed to die,
One for the Dark Lord on his dark throne
In the Land of Mordor where the Shadows lie.
One Ring to rule them all, One Ring to find them,
One Ring to bring them all and in the darkness bind them
In the Land of Mordor where the Shadows lie.
Ricordo nuovamente che, nella finzione tolkieniana, le origini del componimento non sono chiare: quello che Gandalf presenta a Frodo potrebbe ben essere a sua volta il risultato della traduzione da una lingua molto più antica. Mi mantengo volutamente sul vago, poiché gli approfondimenti di tipo linguistico non rientrano tra gli scopi di questo articolo – come già visto nelle premesse. Intendevo piuttosto evidenziare uno dei motivi per cui lanciarsi in giudizi affrettati significherebbe sminuire grandemente l’importanza del legendarium: le scelte traduttive dipendono dal testo fonte, che va prima di tutto analizzato a fondo; soltanto in seguito si possono fare considerazioni e valutazioni su come tradurre, mutuate dall’interpretazione del testo (cfr. Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa: Esperienze di traduzione, ed. Bompiani, 2003 e Franca Cavagnoli, La voce del testo: L’arte e il mestiere di tradurre, ed. Feltrinelli, 2012).
Ad ogni modo, questo è il nostro unico punto di partenza, da cui possiamo quantomeno dedurre la struttura di un’ottava ( = strofa di otto versi) con schema di rime ABABACCA. Inoltre, benché ciò non sia necessariamente rilevante, non è ravvisabile un paradigma metrico coerente tra i versi, esclusi quelli dell’Anello – che pure ricalcano alla lettera l’iscrizione originaria nella lingua di Mordor (cfr. Orkish and the Black Speech di Helge K. Fauskanger – e relativa traduzione di Gianluca Comastri: Linguaggio Nero e degli Orchi).
Tutto il resto – e ci sarebbe moltissimo da dire – lo rimando a data da destinarsi.
Alliata/Principe (ed. Bompiani, 2003)
Tre Anelli ai Re degli Elfi sotto il cielo che risplende,
Sette ai Principi dei Nani nelle lor rocche di pietra,
Nove agli Uomini Mortali che la triste morte attende,
Uno per l’Oscuro Sire chiuso nella reggia tetra,
Nella Terra di Mordor, dove l’Ombra nera scende.
Un Anello per domarli, Un Anello per trovarli,
Un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli,
Nella Terra di Mordor, dove l’Ombra cupa scende.
Questa versione, nel corso degli ultimi cinquant’anni, è divenuta indubitabilmente la più nota traduzione italiana della cosiddetta poesia dell’Anello.
Negli indici dell’edizione Bompiani del 2003 è più propriamente riportata sotto la voce Strofa degli Anelli, dall’inglese Verse of the Rings – o potremmo chiamarla anche Strofa dell’Anello, da Ring Verse.
Dopotutto, è proprio Gandalf ad introdurla così (come “verse” e non come “poem” o “poetry”): «It is only two lines of a verse long known in Elven-lore» (v. J.R.R. Tolkien, The Fellowship of the Ring, Allen & Unwin, 1954 – cfr. The Lord of the Rings – John Ronald Reuel Tolkien – Google Books).
Letteralmente, «two lines of a verse» significa «due versi di una strofa»; i traduttori italiani hanno optato per “poema” (Alliata) e “poesia” (Fatica). Non che faccia moltissima differenza, né tantomeno si può dire che sia semanticamente sbagliato: soltanto un po’ meno specifico; ma non potendo ora tuffarci in analisi linguistiche dettagliate, chiudiamo qui questo breve excursus.
Appare subito evidente che le rime seguono perfettamente lo schema della versione inglese.
In questa traduzione, inoltre, anche i singoli versi del componimento aderiscono ad un modello. Dal conteggio delle sillabe metriche emerge l’inequivocabile intento di adattare il testo ad una struttura ben precisa, secondo cui ogni verso dovrebbe essere un doppio ottonario; è interessante notare come ciò sia possibile solo a condizione di applicare opportunamente determinate figure metriche, specificatamente (ma non esclusivamente) nelle seguenti evenienze:
- il primo verso impone una dialefe, ovvero la separazione di due vocali consecutive che sarebbero altrimenti accorpate in un’unica sillaba metrica (cfr. dialèfe in Vocabolario – Treccani);
- il terzo verso impone una sinalefe, ovvero l’unione di due (o più) sillabe grammaticali in una sola sillaba metrica (cfr. sinalèfe in Vocabolario – Treccani);
- il quinto e l’ottavo verso impongono una diastole, ovvero lo spostamento di accento alla sillaba successiva all’interno di una parola (cfr. dïàstole in Vocabolario – Treccani).
Partiamo dal principio, evidenziando il fenomeno fonetico per cui «due (o più) vocali tra parole contigue», nella lingua parlata, si pronunciano «di solito senza pause in una sola emissione di fiato» (v. Giuseppe Sangirardi, Francesco De Rosa, Breve guida alla metrica italiana, ed. Sansoni, 2002, p. 64).
Ai fini della musicalità, è importante rilevare una netta differenza rispetto a quanto avviene per l’elisione, l’aferesi e l’apocope vocalica; in particolare in quest’ultimo caso, sebbene il computo sillabico resti invariato, la sinalefe «fluidifica» il verso: «l’opposizione è equiparabile a ciò che in musica è lo ‘staccato’ rispetto al ‘legato’», con una differenza sonora che «l’orecchio educato percepisce» (v. Aldo Menichetti, Metrica italiana: Fondamenti metrici, prosodia, rima, ed. Antenore, 1993, p. 326 – di cui un esempio, tratto dall’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, è ripreso anche dalla Treccani: sinalefe in “Enciclopedia dell’Italiano”).
Molto altro ci sarebbe da dire; e molto è già stato detto, per cui rimando a fonti più autorevoli.
Torniamo piuttosto ai nostri versi e proviamo a capirli meglio con un esempio, suddividendo in sillabe metriche il primo ottonario:
TRE | a | NEL | li ai | RE | de | gli EL | fi | ...
Secondo la naturale prosodia della lingua italiana, questa lettura potrebbe – almeno inizialmente – suonare vagamente forzata all’orecchio (in virtù del fenomeno fonetico accennato poco sopra), ma il condizionale è d’obbligo: come abbiamo già visto, qualsiasi valutazione in termini di melodiosità ed eufonia rientra invariabilmente nella sfera della soggettività.
Resta invece oggettivo che una tale scansione rende il ritmo più cadenzato e sostenuto: è proprio la dialefe tra le prime due sillabe a restituire al verso il caratteristico andamento trocaico dell’ottonario, con un susseguirsi di accenti del tipo FORTE-debole (cfr. L’ottonario | Breviario di metrica italiana).
A tal proposito, è interessante cogliere una sottigliezza ritmica: pur applicando la sinalefe, l’alternanza binaria non andrebbe perduta, ma semplicemente traslata (debole-FORTE anziché FORTE-debole) – tecnicamente, avremmo un settenario giambico in luogo di un ottonario canonico (cfr. Il giambo e il ritmo giambico | Breviario di metrica italiana). Benché ciò non sia una regola generale e dipenda dalla specifica configurazione sillabica, è pur vero che agisce da paracadute nei confronti del lettore ignaro, preservando la musicalità del verso a prescindere dalla dialefe.
Mi si perdonerà se, arrivati a questo punto, voglio sottolineare un truismo: non tutti gli accenti hanno la stessa intensità. Persino la consueta classificazione metrica degli accenti principali e secondari può risultare fuorviante, giacché anche questi ultimi «con la loro varietà creano il movimento del ritmo» e possono assumere un ruolo preponderante (v. Mario Fubini, Metrica e poesia: Lezioni sulle forme metriche italiane, Vol I, Dal Duecento al Petrarca, ed. Feltrinelli, 1962 – cfr. Gli accenti del verso | Breviario di metrica italiana).
A maggior ragione, dunque, anche l’analogia musicale proposta, che accosta gli accenti forti e deboli al battere e al levare, è una mera semplificazione; o tutt’al più un’utile linea guida, ma solo ai fini della strutturazione e della comprensione del ritmo.
Vediamo adesso perché la dialefe debba avvenire esattamente tra le prime due sillabe, piuttosto che separare quelle in quarta e settima posizione (accorpate per sinalefe): infatti, per ottenere un ottonario purchessia, basterebbe scegliere a caso uno dei tre frangenti di incontri vocalici tra le parole adiacenti – ne abbiamo già osservato il primo, che produce un ottonario canonico.
Ecco il secondo:
tre a | NEL | li | ai | RE | de | gli EL | fi | ...
E il terzo:
tre a | NEL | li ai | RE | de | gli | EL | fi | ...
Questi due versi condividono un accento in seconda posizione (oltre a quello sulla settima sillaba, che segue dalla definizione di ottonario), mentre differiscono tra loro per gli accenti sulla quarta e sulla quinta sede, rispettivamente.
Al di là di altre possibile considerazioni (ad esempio, sull’opportunità di forgiare il ritmo del verso in armonia con i sottesi aspetti linguistici e grammaticali), il componimento stesso ci mostra che il primo caso è l’unico ben corroborato dal contesto (e dunque intenzionale oltre ogni ragionevole dubbio, potremmo dedurre): negarlo equivale a negare secoli e secoli di studi metrici.
Con ciò, chiudiamo il primo punto per passare al secondo: la sinalefe incriminata è nella terza sillaba metrica. Nella fattispecie, la parola “uòmini” presenta un dittongo ascendente – con la “u” in funzione di semiconsonante, mentre sulla “o” cade l‘accento tonico (cfr. DITTONGO in “La grammatica italiana”). Ancora una volta, tuttavia, l’incedere fluido dell’ottonario non lascia adito a dubbi.
Prima di proseguire, soffermiamoci su una singolarità che riguarda il dìstico ( = strofa di due versi) dell’Unico Anello: qui riscontriamo due indubbie occorrenze di dialefe tra le parole che si trovano in concomitanza della «pausa mediana dei versi doppi», dove «non può di regola esserci sinalefe» (v. Antonio Pinchera, La metrica, ed. Bruno Mondadori, 1999).
Infatti, il verso doppio è proprio una «giustapposizione di due versi singoli» (v. versificazione in “Enciclopedia dell’Italiano”), indipendenti e separati dalla cesura fissa (cfr. La cesura | Breviario di metrica italiana), ciascuno dei quali prende il nome di emistìchio ( = metà verso).
Da questa definizione (oltre che a corollario dei più basilari principi metrici) segue che gli emistichi non debbano necessariamente terminare con una parola piana (cfr. ACCENTO in “La grammatica italiana”); e pertanto, non è detto che un doppio ottonario contenga esattamente sedici sillabe metriche. In quest’ultimo caso, una denominazione più coerente sarebbe esadecasillabo – per designare un verso caratterizzato, come solitamente accade, dalla posizione metrica dell’ultimo accento (cfr. Il computo delle sillabe | Breviario di metrica italiana oppure metrica e lingua in “Enciclopedia dell’Italiano”).
Quanto appena visto è fondamentale per comprendere appieno il terzo punto: gli ictus del verso implicano la pronuncia “Mordòr” – con accento tonico sulla sillaba finale.
Al di là di esigenze metriche, sarebbe invece corretto accentuare la prima vocale e prolungare il suono della seconda: Il Silmarillion rivela in appendice che il nome deriva dall’unione delle parole “mor” (“scuro”) e “dôr” (“terra”) in Sindarin (cfr. Mordor – Tolkien Gateway, § Etymology, che a sua volta cita direttamente: J.R.R. Tolkien, Christopher Tolkien, The Silmarillion, “Appendix: Elements in Quenya and Sindarin Names” – cfr. “The Silmarillion” (Chapter 33) | Hogwarts Library), e sappiamo che «nelle parole di due sillabe l’accento cade quasi sempre sulla prima» (v. Il Signore degli Anelli – Appendice E, 1a ed. Bompiani 2003, p. 1336); è l’autore stesso a confermare il tutto in una sua registrazione: J.R.R. Tolkien recites the Ring Verse – YouTube.
Ancorché più corretto da un punto di vista prettamente linguistico, pronunciare “Mòrdor” provoca la perdita di una sillaba metrica: posticiparne l’accento, per effetto della diastole, è l’unica maniera per preservare non soltanto l’integrità metrica del poemetto, ma anche l’andamento binario.
Infatti, a differenza di quanto osservato per la dialefe tra “Tre” e “anelli”, questa volta per il lettore ignaro non c’è alcun paracadute: per salvaguardare l’uniformità ritmica, l’emistichio in oggetto deve essere inteso come un ottonario tronco, con accenti in terza e settima posizione; scalare sulla sesta sede quest’ultimo, oltre a rendere quell’emistichio un settenario piano, introdurrebbe una cadenza anapestica – con due sequenze di accenti debole-debole-FORTE – e dunque ternaria (cfr. L’anapesto e il ritmo anapestico | Breviario di metrica italiana). In altre parole, i versi interessati si trasformerebbero nella concatenazione di un settenario anapestico e un ottonario canonico.
A proposito di questo fenomeno, invero piuttosto raro (rimando ancora a Menichetti e Pinchera), c’è pure da considerare che (il più delle volte) non è dovuto a sole necessità ritmiche: in Dante, per esempio, «l’avanzamento di accento non è arbitrario» (v. diastole in “Enciclopedia Dantesca”).
L’assenza di presupposti linguistici e culturali a cui attingere è altamente polarizzante: o licenza poetica, o errore di pronunzia. Quale che sia, all’atto pratico non fa la benché minima differenza; a chi legge, in ogni caso, restano due soli modi di interpretare il verso: o attenersi all’analisi testuale, o pronunciare correttamente.
Curiosamente, il cambio di ritmo derivato dalla dizione convenzionale coinvolge proprio i versi che vanno ad incorniciare l’iscrizione dell’Unico Anello – quasi fosse un effetto stilistico ricercato, atto a metterla in risalto; ma al più, come abbiamo visto, si tratta solo di una felice coincidenza (o, se vogliamo, di una vera e propria serendipità).
Sempre a proposito di quel peculiare distico, notiamo ai fini della musicalità la triplice ripetizione dell’espressione “Un Anello” (cfr. Anafora (figura retorica) – Wikipedia) e i quattro verbi “domarli”, “trovarli”, “ghermirli”, “incatenarli” – in un tripudio di rime, assonanze e consonanze.
Anche nella versione di Tolkien, questi due versi costituiscono la parte più ritmata di tutto il componimento, così come la più regolare: troviamo, rispettivamente, un pentametro giambico (corrispondente al nostro endecasillabo con ritmo binario) ed un esametro giambico (simile all’alessandrino francese o al doppio settenario italiano, avendo cura di preservare l’andamento binario).
Dal punto di vista rimico, invece, vi sono assonanze interne ai versi (“RULE them all” / “FIND them“ e “BRING them all” / “BIND them“) ed assonanze tra gli emistichi (“RULE them all“ / “BRING them all“ e “FIND them“ / “BIND them“) – l’ultimo dei quali è la più evidente rima baciata; trattasi peraltro di rima femminile, meno comune in inglese e sonoramente più ricca per via della sillaba addizionale (cfr. Feminine rhyme | prosody | Britannica).
Ancora sul piano terminologico, restando per quanto possibile nel reame della fattualità, possiamo soffermarci su altri due dettagli:
- nel quarto verso, l’aggettivo “dark” è stato reso dapprima come “oscuro” e poi come “tetra” (per evidenti esigenze di rima);
- il quinto e l’ottavo verso, identici nella versione inglese, differiscono tra loro per l’aggettivo attribuito all’Ombra prima “nera” e poi “cupa”.
In quest’ultimo caso, sono necessarie due ulteriori precisazioni: la prima è che gli aggettivi della versione italiana sono una libera aggiunta, a fini metrici; la seconda è che il sostantivo inglese “Shadows” designa, più letteralmente, una pluralità di ombre. Tuttavia, dobbiamo pur ricordarci che esiste la sineddoche: nella fattispecie, qui sarebbe stato adoperato «un termine al singolare invece che al plurale» (v. sinèddoche in Vocabolario – Treccani).
Infine, possiamo notare che il quarto verso offre all’orecchio delle allitterazioni («per l’Oscuro Sire chiuso nella reggia tetra»), mentre il terzo verso guadagna un’assonanza (“Mortali” / “morte”) a partire da quella che, nella versione inglese, era una ripetizione puramente semantica (“Mortal” / “die”) – ma su questo tipo di accidenti linguistici non è mai possibile avere un pieno controllo.
Per il momento fermiamoci qui, onde evitare di sconfinare eccessivamente nelle discipline della semantica e della traduzione – poco pertinenti in questa sede. Rimandiamo ulteriori sfumature terminologiche a quando ci sarà possibile andare un po’ più a fondo.
Fatica (ed. Bompiani, 2019)
Tre Anelli ai Re degli Elfi sotto il cielo,
Sette ai Principi dei Nani nell’Aule di pietra,
Nove agli Uomini Mortali dal fato crudele,
Uno al Nero Sire sul suo trono tetro
Nella terra di Mordor dove le Ombre si celano.
Un Anello per trovarli, Uno per vincerli,
Uno per radunarli e al buio avvincerli,
Nella Terra di Mordor dove le Ombre si celano.
Partiamo nuovamente dalle rime: a prima vista potrebbero sembrare assenti, ma ancora una volta lo schema è aderente alla versione inglese – precisamente ABABACCA.
Infatti, al di là dell’evidente rima inclusiva tra “vincerli” e “avvincerli”, ci sono rime imperfette tra “pietra” e “tetro”, così come tra “cielo”, “crudele” e “celano” – qui con rima ipermetra. Simili espedienti sono stati adottati dal traduttore anche altrove (cfr. Tolkien e la poesia di Aragorn (traduzioni) – parte 2, § L’enigma di Passolungo).
Per il resto, a differenza della versione italiana precedentemente esaminata e analogamente a quella inglese, si evince chiaramente l’assenza di una struttura metrica a priori.
Da ciò sorgono immediatamente molteplici considerazioni, per lo più non inerenti ai nostri scopi; tra queste, ne voglio indirizzare una specifica: non è detto che replicare pedissequamente la forma originaria, quandanche fosse possibile, sia il modo migliore di procedere. Per poter valutare una scelta traduttiva bisogna prima di tutto individuarne la ratio – cosa che per ovvie e già esplicitate ragioni non faremo qui; frattanto rimando ai testi sulla traduzione già menzionati.
Allontaniamoci un attimo dal componimento: mi sembra opportuno argomentare l’utilità e il senso di analizzare metricamente un testo che non aderisce ad alcuna forma metrica. Mi permetto quindi una digressione, un po’ meno rigorosa e un po’ più creativa, ma soprattutto ricolma di spunti – che proprio per ciò ritengo interessante e vi consiglio di leggere. Altrimenti, l’analisi prosegue più giù!
Riprendiamo subito il discorso della musicalità: la mancanza di modelli fissi, di per sé, la impatta ben poco. Indubbiamente seguire uno schema impone una qualche sorta di regolarità ritmica; ed è risaputo che la ripetizione gioca un grande ruolo nella musica (e non solo). Qualora fosse d’uopo ripeterlo: Dillo un’altra volta (ovvero perché la ripetizione in musica è così importante).
Ovviamente la questione non è così semplice, e questo è sotto gli occhi di tutti; o meglio, sotto gli orecchi di tutti: nella poesia, la musicalità è influenzata da molti altri aspetti sonori – tra cui rime, assonanze, consonanze, allitterazioni, onomatopee, paranomasie… basti leggere Meriggiare pallido e assorto di Eugenio Montale; oppure magari ascoltarla: Una poesia di Eugenio Montale – YouTube.
Più o meno tutte le figure retoriche, maneggiando in un qualche modo le parole, causano un certo contraccolpo sulla melodiosità; e ciò vale anche per quelle dai risvolti primariamente sintattici o semantici, come abbiamo già potuto constatare con l’anafora e la sineddoche.
E pur il solo suono, seppur senza significato, sarebbe sufficiente: esempi sono le poesie nonsense di Edward Lear, peraltro notissimo autore di limerick, e il Jabberwocky di Lewis Carroll. Nella relativa pagina inglese di Wikipedia se ne può ascoltare una registrazione in lingua originale (cosa che caldeggio caldamente), mentre in quella italiana sono disponibili un certo numero di estratti delle tra loro diversissime traduzioni italiane (il che, se state ancora leggendo, potrebbe senz’altro destare il vostro interesse).
E poi figurano finanche fenomeni fonosimbolici e fonosemantici, da cui attinsero a piene mani le avanguardie futuriste e dadaiste (tipo, rispettivamente, E lasciatemi divertire di Aldo Palazzeschi e Karawane di Hugo Ball – tra i pioneri della poesia sonora), sino a giungere alla metasemantica delle sorprendenti fànfole di Fosco Maraini. A proposito, non potete perdervi Il lonfo in queste due splendide interpretazioni: Gigi Proietti – Lonfo – YouTube, sempre magistrale, e IL LONFO by Maddy – YouTube, per una ricarica di tenerezza – e vi sfido a non ridere!
Al di là degli estremi avanguardistici, già solo il ritmo ha una grande influenza; ma non deve per forza essere un fisso susseguirsi di sé stesso: spesso, al contrario, è proprio la varietà a salvare dalla monotonia. Ne sono un’ottima dimostrazione i testi rap (so d’esondare ma non posso non citare con copiosa contentezza: Caparezza!) o altre forme di poesia più prettamente performativa come il poetry slam (stavolta segnalerei il sensazionale Simone Savogin).
E proprio quando incominciate a pensare che cotanto genio artistico sia irraggiungibile, ecco che arriva quel genio inarrivabile di Tim Minchin con «a nine and a half minute jazz backbeat poem about critical thinking» («una poesia jazz controtempata di nove minuti e mezzo sul pensiero critico»): merita talmente tanto che vi lascio qui una sua live performance (Storm by Tim Minchin – YouTube), il testo (vi servirà! Tim Minchin – Storm Lyrics | Genius Lyrics) e pure una bellissima animazione (Tim Minchin’s Storm the Animated Movie – YouTube – con sottotitoli disponibili).
Prendiamo infine i famigerati versi liberi: liberi sì, ma soltanto da una struttura statica e non dalla metrica – che è insita in un verso così come la grammatica è implicita in un parlante madrelingua, capace di esprimersi correttamente ancorché non conosca a menadito quelle stesse regole che pure applica di continuo; in questo senso, mi verrebbe quasi da dire che la metrica è la grammatica del verso.
In relazione alla musicalità, la conoscenza dei principi della versificazione assume lo stesso ruolo che la teoria musicale ricopre per un musicista: certo, si può improvvisare ad orecchio; e magari senza sapere di star suonando su una scala misolidia, sebbene sapendolo sarebbe sicuramente più semplice suonare.
Comunque sia, non intendo addentrarmi nell’eterna diatriba che contrappone dualisticamente tecnica ed emozione (o più generalmente, anche al di fuori dell’arte, teoria e pratica); il mio unico scopo è sottolineare che la prima è sempre presente: in maniera consapevole o meno, poco cambia.
Concludo questo diverticolo rifacendomi ancora alla poesia italiana del Novecento: è noto che nel verso libero ungarettiano ci sono tracce di versi tradizionali – come in Soldati, composta da due settenari spalmati su quattro versi, e Mattina, un settenario spezzato in due ternari, di cui il primo sdrucciolo; oppure San Martino del Carso, che termina con due endecasillabi (entrambi dallo stesso ritmo, con ictus sulla terza e sulla sesta sillaba) disposti su due distici.
Proprio Giuseppe Ungaretti, intervistato da Giovanni Battista Angioletti, ha timidamente definito l’endecasillabo «lo strumento poetico naturale della nostra lingua» (v. La poesia contemporanea è viva o morta?, L’Italia Letteraria, Roma, a. I, n. 11, 16 giugno 1929) – e due anni più tardi, Eugenio Montale ebbe a scrivere che «tutte le buone liriche […] obbediscono a una legge, anche se invisibile» e che «non si dà poesia senza artifizio» (v. Della poesia d’oggi, La Gazzetta del Popolo, Torino, 4 novembre 1931).
Bonus: La poesia secondo Ungaretti – YouTube – un emozionante estratto di un’intervista televisiva del 1961.
Torniamo ora alla traduzione del componimento, che adotta di versi di lunghezza compresa tra 11 e 14 sillabe – oppure 15, a seconda di come le computiamo. Di fatto, non essendoci nessun modello di riferimento, le già poco ferree regole metriche diventano ancora più arbitrarie, ingenerando delle ambiguità ritmiche.
Chiedo venia in anticipo per la carrellata che segue, molto asciutta e tecnica: tuttavia, stante l’interpretazione di questi versi eterogenei al gusto e alla sensibilità musicale di ognuno, ritengo che il mio solo compito sia scomporli a livello atomico sul piano ritmico-accentuativo – allo scopo di migliorarne la comprensione ed evidenziarne possibili letture alternative.
In apertura troviamo un endecasillabo giambico, la cui cadenza binaria è ratificata da un accento secondario in seconda posizione. Laddove prima era necessaria una dialefe, questa volta è invece proprio la sinalefe a restituire un endecasillabo a maiore in piena regola (cfr. Endecasillabo | Breviario di metrica italiana).
Il secondo verso si compone di due emistichi: un ottonario canonico, uguale a quello della versione precedente, e un senario anfibrachico – ad andamento ternario, con un cambio di ritmo.
Lo stesso avviene per il terzo verso, a patto di applicare una sinalefe già discussa prima – e che pure diventa meno stringente, lasciando più libertà interpretativa al lettore. Ragionando in termini strettamente ritmici, possiamo pensare al verso in due modi: o composto da quattro piedi trocaici e due piedi anfibrachici (ottonario canonico + senario, con sinalefe), oppure da due piedi dattilici e tre piedi anfibrachici (novenario non canonico + senario, con dialefe).
Nel quarto verso l’andamento torna ad essere interamente binario, con un dodecasillabo nella sua consueta forma di doppio senario e accenti sulle sedi dispari, mentre il quinto e l’ottavo sono degli alessandrini in cui entrambi gli emistichi sono dei settenari anapestici.
L’iscrizione dell’Unico Anello comincia con un verso dal ritmo ambivalente, che può esser visto come l’accostamento di un ottonario canonico e un quinario dattilico, tra loro separati da dialefe, oppure come un singolo dodecasillabo sdrucciolo. Optando per quest’ultima lettura, il verso (dalla seconda sillaba in avanti) suona simile al primo endecasillabo: l’andamento diventa essenzialmente binario, grazie ad una sinalefe in cesura che accosta l’ultimo accento dell’ottonario, più forte, al primo del quinario – con un tipo di contraccento riscontrabile, tra gli altri, anche in Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi (cfr. ancora una volta Gli accenti del verso | Breviario di metrica italiana).
Il distico continua poi con un altro endecasillabo a maiore, ma l’accento secondario si trova adesso sulla prima sillaba. Analogamente a quanto appena osservato, anche qui in corrispondenza della cesura si verifica una sinalefe – favorita dall’incontro di tre vocali atone. Separare i due emistichi con una dialefe trasformerebbe il verso in un dodecasillabo non canonico, composto da un settenario (dal ritmo un po’ inconsueto) e da un quinario sdrucciolo – in un’operazione che, a mio avviso, avrebbe poco senso metrico.
Dal punto di vista terminologico, “dark” è stato reso nuovamente con due aggettivi diversi e l’ultimo verso è una ripetizione identica del quinto – riecheggiando il componimento inglese.
Continuando il parallelismo con gli altri commenti già fatti per la versione precedente, in questa non c’è più l’assonanza del terzo verso (perdendo contemporaneamente una larga parte della ripetizione semantica sulla morte), mentre il quarto risulta ancor più marcatamente allitterativo («Nero Sire sul suo trono tetro»).
In ultimo, l’anafora cede il posto a versi più veloci e alla già vista rima inclusiva; ma rimandiamo al futuro la discussione delle pur rilevanti implicazioni linguistiche di questa ed altre scelte.
Extra
Il grosso è fatto: perché non concederci un piccolo momento di piacere?
L’analisi dura e pura la considero terminata, anche in ossequio allo spirito dell’articolo originario (che intendeva confrontare la musicalità delle due sole versioni di cui sopra, come già raccontato nelle premesse).
Tuttavia, ho raccolto qui per voi anche le altre due traduzioni che ho menzionato; non soltanto per completezza, o magari per comodità di confronto, ma anche e soprattutto per curiostà – che già di per sé mi sembra una ragione più che sufficiente e nobile! 🙂
Alliata (ed. Astrolabio, 1967)
Tre Anelli per i Re Gnomici
Che dominano nell’eternità,
Sette per i Principi dei Nani
Che nei manieri di pietra sono,
Nove per i Miseri Uomini
Destinati alla mortalità,
L’Unico per l’Oscuro Signore
Seduto sull’oscuro trono
Nella Terra di Mordor
Dove l’Ombra incombe.
L’Unico Anello per dominarli,
L’Unico Anello per trovarli,
L’Unico Anello per afferrarli
E vincolarli nell’oscurità
Nella Terra di Mordor
Dove l’ombra incombe.
Momento amarcord fortissimo. Non solo perché vi rimando indietro nel tempo sino alla primissima edizione italiana, ma anche perché inizialmente ho appreso di questa versione grazie ad un post di Soronel l’Araldo datato dicembre 2003 (nientedimeno!) – e se il link non vi dice nulla, forse siete semplicemente troppo giovani.
Tuttavia, ho una fonte ben più certa: alcuni Hobbit di biblioteca hanno trovato un Silmaril!
Tra le foto presenti nell’articolo appena linkato, ce n’è una della poesia – che fa capolino già tra le primissime pagine. Pressato dalla mia proverbiale pedanteria, ho chiesto loro di controllare anche l’occorrenza nel secondo capitolo: Monia e Marco sono stati gentilissimi e mi hanno inviato le foto delle due paginette in questione.
Colgo l’occasione per segnalare che il buon Lock si è reso autore di un’opera di bene nei confronti dell’umanità tutta, ma soprattutto della tolkienianità, trascrivendo l’intero «primo capitolo della prima stesura italiana del SdA» (con rinnovati ringraziamenti «a un volenteroso possessore», per l’appunto Marco, «che l’ha fotografato pagina per pagina»): La prima Compagnia dell’Anello | io.
Tornando a noi: i miei sospetti, rivelatisi poi infondati, riguardavano per lo più i rientri a capo. Ritenevo plausibile che, per esigenze estetiche, nell’anteprima del poemetto i versi potessero essere stati spezzati su due righe in favore di una forma ritenuta più armoniosa. Un po’ come ho fatto io stesso in Libertà e Controllo – ma diversamente dalla poesia visiva (o poesia visuale, che dir si voglia) ove la componente figurativa acquisisce una rilevanza tale da essere parte integrante dell’opera, da cui diventa imprescindibile.
Invece, pare si sia trattato proprio una scelta della traduttrice, sicché i «due versi di una strofa» di Gandalf diventarono «solo quattro versi di un antichissimo poema della tradizione gnomica» – non dovrebbero destare stupore gli Gnomi, perlomeno a chi abbia letto quest’articolo sin dal principio.
Ci sarebbero molte scelte traduttive interessanti da discutere, tanto più che questa versione ha in un certo qual modo gettato le basi per le successive; ovviamente non lo faremo qui, dove ho voluto includerla principalmente come bonus; già che ci siamo, però, tanto vale tracciare una velocissima panoramica metrica.
Sebbene ogni verso inglese sia stato effettivamente reso con due versi, ha senso fare lo sforzo di immaginarli come versi doppi: così facendo, scopriamo quantomeno che la traduzione non è stata del tutto aleatoria dal punto di vista delle rime, ma c’è un pattern simile all’originale: ABABCDAC.
Con la quinta rima che si slega dallo schema alternato, sembra che la traduttrice abbia individuato due quartine semi-indipendenti; eppure, a questo punto non riesco davvero a spiegarmi come mai la seconda non sia in rima incrociata – anche perché chiunque si accorgerebbe di una così palese e banale inversione tra “vincolarli” e “nell’oscurità”. Da un lato, questa semplice operazione avrebbe restituito uno schema del tipo ABABCDDC nella nostra ipotesi del raggruppamento in versi doppi; dall’altro, avrebbe completato il quadro delle rime perfette tra i quattro versi dell’Anello. Certo, in questo modo il quattordicesimo verso avrebbe perso una sillaba metrica; ma proprio grazie a ciò sarebbe risultato maggiormente affine agli altri, più brevi. Dopotutto, l’isosillabismo non rientra neanche alla lontana tra le pretese di questo adattamento: l’unico altro endecasillabo è il secondo verso, mentre i restanti oscillano tra le sei e le dieci sillabe metriche.
Visto? Come avevo promesso, sono stato veramente veloce – per una volta! 😛
Zolla (ed. Bompiani, 2003)
Tre Anelli per i Re degli Elfi sotto il cielo,
Sette per i signori dei nani nelle aule di pietra,
Nove per gli uomini votati alla morte,
Uno per il Signore tenebroso sul suo cupo trono
Nella terra di Mordor dove posano le ombre,
Un unico anello per reggerli tutti e trovarli,
E adunarli e legarli nel buio,
Nella terra di Mordor dove posano le ombre.
Questa è l’ultima versione che ci rimane, ed è un capitolo a parte per almeno due ragioni: intanto perché non è inclusa in una vera e propria traduzione, bensì compare solo nella (lungamente dibattuta) introduzione di Zolla; e poi perché non ha finalità poetiche, dando priorità al significato e limitandosi a renderlo in maniera pressappoco discorsiva.
A mio avviso, anche questi versi lasciano trapelare la sua personale interpretazione, che peraltro ha già scatenato non poche polemiche; tuttavia, al di là di alcune scelte terminologiche che reputo fuori luogo, ce ne sono invece altre interessanti – che per il momento lascio cogliere a voi: ormai già saprete bene che non è questa la sede per parlarne.
Considerazioni finali
Come preannunciato sin dall’inizio, non ci sono conclusioni da trarre – se non quelle che riteniate più opportune. Io non ne propongo, semplicemente perché in questo articolo non c’è alcuna tesi da dimostrare: evidentemente (e dichiaratamente), non si tratta di un saggio argomentativo, quanto piuttosto uno studio metrico – di carattere alquanto divulgativo.
Per questa ragione non hanno potuto trovare spazio domande e riflessioni sulle motivazioni sottese da tale o tal altro approccio, che avrebbero anche distolto l’attenzione dal tema principale, essendo di natura prevalentemente traduttiva.
Ogni critica e considerazione in merito richiederebbe di essere adeguatamente circostanziata: la traduzione non è una scienza esatta, ma è una scienza nondimeno – sociale ed interdisciplinare – e come tale va trattata (cfr. Metodo scientifico – Wikipedia).
Va da sé (o perlomeno dovrebbe) che determinate obiezioni prive di cognizione di causa possano essere immediatamente rigettate. Nel corso degli ultimi mesi mi è capitato di leggerne in quantità sovrabbondante; e i lettori più attenti si saranno senz’altro resi conto che ho cercato di anticiparne una in particolare – che ritengo stucchevole e un po’ subdola, al pari di quel tipo di calco linguistico pervicacemente letterale che dà vita al doppiaggese e al traduttese (o traduttorese, se più v’aggrada).
Certo, occorre prestare attenzione anche al rischio opposto: discostarsi troppo dal testo originale, nella sostanza o nella forma, senza solide argomentazioni a sostegno; ma dopotutto, già altrove ho definito proprio questa «la sfida di ogni traduzione: non dire di meno, ma nemmeno di più».
Quest’ultima autocitazione proviene da un articolo che ho già menzionato un paio di volte, di cui ho riproposto il titolo per questo paragrafo conclusivo per richiamare alcune delle riflessioni un po’ random che vi ho incluso due mesi or sono (cfr. Tolkien e la poesia di Aragorn (traduzioni) – parte 2, § Considerazioni finali).
E anche qui, come nell’articolo appena citato, vorrei concludere rievocando le parole dello stesso John Ronald Reuel Tolkien, ma questa volta rivisitandole alla bisogna: lo sforzo di tradurre può essere meritevole anche per la comprensione metrica che risveglia.
La verità, vi prego, sull’articolo
Non pago di dubbie rivisitazioni, approfitto ora anche di W. H. Auden – che fu peraltro allievo del professor Tolkien – semplicemente per invitarvi a farmi sapere che ne pensate. Spero che quanto avete letto qui vi sia stato utile in qualche modo.
Anzi, magari ne approfitto pure per ricordarvi di esplorare alcuni dei numerosi spunti sparpagliati qua e là, compresi quelli che ho preferito non linkare esplicitamente per evitare di appesantire il già denso articolo: ci sono molti mondi meravigliosi che aspettano solo d’essere scoperti!
E se avete altro da aggiungere, siate voi ad approfittare liberamente dello spazio per i commenti: è lì apposta! 🙂
~Kelo ツ
P.S. Se l’articolo vi è piaciuto, potete pur sempre condividerlo con altri appassionati di Tolkien o di poesia! Infine, lascio qui una raccolta di tutti gli altri post a tema pubblicati in questo blog:
👉 Tag: Tolkien 🍀
Approfondimenti
Come promesso, ecco un riepilogo più organico di alcune fonti bibliografiche.
Sulla traduzione
- 2003 – Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa: Esperienze di traduzione, ed. Bompiani
- 2012 – Franca Cavagnoli, La voce del testo: L’arte e il mestiere di tradurre, ed. Feltrinelli
Dire quasi la stessa cosa è probabilmente il non plus ultra divulgativo sulla traduzione editoriale, affrontando in maniera precisa (e relativamente moderna, in barba ai quasi vent’anni trascorsi dalla prima pubblicazione) temi sensibili quali interpretazione, negoziazione, compensazione, strategie traduttive, aspetti stilistici e molto altro; sempre piacevole e ricchissimo di esempi, tra cui anche qualche riferimento en passant specificatamente rivolto alla poesia.
La voce del testo è un libro più snello e fortemente orientato alla traduzione letteraria, che ricalca con insistenza il concetto della dominante principale, riportando esempi tratti da diversi generi; ho apprezzato particolarmente quelli sui classici, soprattutto Joyce, e sulla musicalità della prosa.
Sulla metrica
- 1962 – Mario Fubini, Metrica e poesia: Lezioni sulle forme metriche italiane, Vol I, Dal Duecento al Petrarca, ed. Feltrinelli
- 1993 – Aldo Menichetti, Metrica italiana: Fondamenti metrici, prosodia, rima, ed. Antenore
- 1999 – Antonio Pinchera, La metrica, ed. Bruno Mondadori
- 2002 – Giuseppe Sangirardi, Francesco De Rosa, Breve guida alla metrica italiana, ed. Sansoni
- 2013 – Aldo Menichetti, Prima lezione di metrica, ed. Laterza
Quest’ultimo, come il titolo stesso suggerisce, è pensato particolarmente per chi voglia approcciarsi per la prima volta alla metrica; nell’anteprima su kobo.com è possibile leggere l’intera premessa – per apprezzarne lo stile chiaro e accademico, ma mai noioso.
Risorse online
- Breviario di metrica italiana di Luca Storti: oltre ad eccellenti contenuti originali, include una ricca bibliografia e molto altro materiale utile;
- La metrica italiana di Mario Macioce: una rubrica in sei parti, priva di «ambizioni enciclopediche o accademiche» e adatta ai principianti che vogliano scoprire i primi rudimenti – grazie ad un linguaggio semplice e semplificativo, che talvolta sacrifica persino l’accuratezza in favore di un buon numero di esempi sulle regole più basilari. Dopotutto, c’è sempre tempo per infrangerle; ma prima bisogna conoscerle!
Grazie per questa tua analisi, molto dettagliata e precisa (sebbene mi gira ancora la testa per colpa di tutti i termini tecnici :)). Volevo condividere una mia piccola riflessione a proposito della metrica della poesia in questione. Secondo me, quello che Fatica cerca di fare è rendere più fedelmente possibile la metrica della Strofa in inglese (a proposito, potresti spiegare qui nei commenti, perché preferisci proprio “strofa”?). Nell’originale abbiamo lo stesso numero di sillabe toniche (5) con un numero diverso di sillabe atone tra loro (che in inglese non influisce il ritmo, perché quando sono di più si pronunciano più velocemente, mantenendo così la stessa lunghezza di ogni riga). Fatica fa la stessa identica cosa. E, a mio parere, ciò potrebbe spiegare le sue scelte. Poi, il risultato a un orecchio italiano può stonare (me l’hanno detto molte persone), ma non mi sembra del tutto insensato.
La cosa più bella di scrivere questo tipo di articoli è proprio la discussione che se ne può sviluppare! 🙂
La tua riflessione è molto interessante, e mi richiama alla mente una ben nota intervista che risale a più di un anno prima della pubblicazione. Quando Loredana Lipperini gli ha chiesto se «la famosa poesia dell’anello» sarebbe rimasta come la conosciamo, Ottavio Fatica ha risposto: «La traduzione sarà diversa, non dico come. Rispetto la logica interna di Tolkien. Un piacere masochistico del traduttore è proprio quello di provare a riproporre lo schema inglese in italiano».
Già questo basterebbe per avvalorare la tua riflessione, poi sicuramente il traduttore avrà anche approfondito nelle varie conferenze svoltesi in alcune università italiane – peccato mi siano state tutte geograficamente inaccessibili. Quando un autore discute le proprie scelte dà una grandissima mano all’interpretazione del testo.
Anche perché in alcuni casi non è affatto facile trovare determinate sfumature, che pure possono rendere un lavoro molto più apprezzabile – soprattutto nel caso di una poesia, che spesso «porta in sé un segreto» (come diceva il caro Giuseppe Ungaretti proprio nel corso dell’intervista televisiva a cui ho accennato nell’articolo).
Ma come ti sarai senz’altro resa conto, sulle intenzioni ho volutamente taciuto (altrimenti l’articolo sarebbe diventato lungo il triplo! 😝), anche perché finiremmo inevitabilmente a parlare di traduzione (“perché ha fatto così e non cosà”, ovvero le motivazioni dietro le scelte) e di linguistica (il suono delle parole, gli accenti, la prosodia, l’intonazione e così via, dovendo pur parlare sia dell’inglese che dell’italiano).
Senza considerare che una poesia va pur sempre interpretata prima di tutto sul piano personale, quindi anche ammesso e non concesso che esista una “lettura corretta” (e, parlando in assoluto, non esiste), si sarebbe liberi di ignorarla deliberatamente “a fin di bellezza” – mi si passi l’espressione.
Una cosa è certa: Fatica non è il primo sprovveduto che passava dalla sede di Bompiani – ma questo ormai dovrebbe già essere fuori discussione! 🙂
Grazie della tua risposta, Kelo. Tu pensa, non mi ricordavo di questo passaggio dall’intervista. Quindi la mia intuizione è valida 🙂 sono perfettamente d’accordo che la percezione di una poesia è sempre molto personale e quindi soggettiva e che non esiste una lettura corretta.
Ah, mi sono accorto di non aver risposto alla domanda sul perché preferisco strofa: è una semplice questione di coerenza, quei versi vengono introdotti così ed una strofa può far pensare alla poesia quanto ad una canzone o un altro tipo di componimento, mantenendo un’interpretazione più libera.
È un po’ un problema di definizioni anche questo, perché poesia è una parola sovraccarica di significato per cui ognuno ha una sua idea di cosa debba essere. E non è né banale né semplice definire cosa è poesia e cosa no – ma il discorso può valere anche per l’arte in generale, per l’amore, per il rispetto, e così via…
Ovviamente nella pratica invece non cambia proprio niente, ma purtroppo dovremmo sempre fare i conti anche con le nostre distorsioni cognitive.
Grazie! Molto interessante. Non mi sono mai posta questa domanda, ma penso che riflettendoci sono d’accordo.
Anche se è ormai passato qualche mese, aggiungo a beneficio dei futuri lettori che in questo contesto tradurre “verse” con “strofa” è semplicemente una scelta più precisa sotto l’aspetto prettamente linguistico.
L’Oxford Learner’s Dictionary riporta quattro definizioni per il sostantivo “verse”, di cui l’unica applicabile alla frase «It is only two lines of a verse long known in Elven-lore» è la seconda («a group of lines that form a unit in a poem or song»), dal momento che “verse” viene adoperato nella forma numerabile (countable) e che possiamo senz’altro escludere ogni riferimento ai versetti biblici.
Addirittura, qualcuno ha ipotizzato tra il serio e il faceto che la strofa degli anelli potesse appartenere al poema “La Caduta di Gil-Galad” – ma chiaramente si tratta di una mera speculazione, benché non priva di fondamento.
Innanzitutto devo dire che è un piacere leggerti. In un mondo ormai votato allo scarno linguaggio da messaggini whatsapp fa immensamente piacere ascoltare frasi che rendono giustizia alla nostra bella lingua e appagano l’orecchio (vabbè, sarebbe l’occhio in questo caso, ma ci siamo capiti).
Terminati i dovuti convenevoli devo dire che, se questo è il risultato, è valsa decisamente la pena aspettare alcune settimane. Naturalmente il risultato è qualcosa che le mie limitate conoscenze non riescono a penetrare (al limite si aggrappano alla superficie, ma è una gran bella superficie), ma rendono evidente il lavoro che c’è stato sulle due traduzioni.
Comprendo il senso dell’articolo ma ora ti rivolgo la stessa domanda che mi hai fatto tu: cosa ne pensi di questa traduzione (anche nel complesso, non solo limitatamente alla poesia)?
Grazie per la citazione, ma il mio è soltanto un piccolo contributo (l’ho realizzato per mio piacere, perché non condividerlo?). Trovo sia importante che (parte del)la storia non vada perduta. 🙂
Grazie! 🍀
Alla tua domanda non posso ancora rispondere, non avendo purtroppo ancora letto tutto il libro (o perlomeno una parte sufficientemente estesa); e credo passerà un bel po’ di tempo prima che ne avrò la possibilità.
Per quanto riguarda ciò che mi è capitato di leggere tra anteprime ed estratti pubblicati un po’ in giro, la maggior parte della prosa mi sembra scorrevole e ben scritta, direi proprio piacevole da leggere. Ci sono dei punti di inciampo, ma è difficile valutare quanto e come influiscano avendo solo una visione decisamente parziale.
Sui nomi, discorso a parte in cui nemmeno voglio entrare, ma dico solo che in generale non ne sono troppo disturbato e tendo ad accettarli anche se non mi piacciono o non li trovo adatti. Questo però credo derivi dal mio carattere, per via del quale tendo a dare più importanza al contenuto che al contenitore, più all’essenza che alla definizione – e, di conseguenza, più al significato che al significante.
C’è anche da dire, infine, che il mio approccio è molto differente: quando leggo indosso il cappello da lettore, e non quello da critico. Altrimenti sarebbe quasi impossibile godersi qualunque cosa! 🙂
Ok, allora ne approfitto per ridefinire (e semplificare) la risposta che ti ho dato di là:
Se non avessi saputo che stessi leggendo Fatica, non me ne sarei accorto (se non, naturalmente, per via dei nomi cambiati o alcune parole arcaiche/difficili/stonate). Per cui gran parte delle critiche lascia il tempo che trova. 🙂
(madonna quanto l’ho scritto male!!). 😀
Non preoccuparti, siamo tra amici 😀
I commenti non contano, altrimenti troppo stress! Ahaha
Comunque mi sembra giusto includere la risposta di “di là”, visto che non ho (ancora[1]) avuto modo di includere il tuo articolo altrove: Al Cavallino Inalberato con Passolungo il forestale. Inutile dire (o forse no?) che lo consiglio! 🙂
[1] Mi era già capitato in passato di pensare che potrebbe essere interessante fare una raccolta di gente che parla di Tolkien, o magari raccogliere articoli per aree tematiche. Non so se ne farò qualcosa, né quando. Mi rivolgo ora a chiunque legga: che ne pensate?
Guarda, io ogni tanto sento l’esigenza di trovare gente con cui discutere le opere di Tolkien. Il problema è che, o trovi gruppi infiniti, pieni di gente che alla fine si ritrova soltanto a postare meme e cretinate, oppure quattro gatti monotematici. Credo però di aver trovato un bel gruppo di persone su Facebook, principalmente collezionisti, ma aperti al dialogo (magari non così complesso come le analisi delle poesie, però postano cose interessanti). Peraltro è (cosa che apprezzo molto) un gruppo aperto, per cui niente segreti o prime donne. Si chiamano “Collezionisti Tolkieniani Italiani” (io faccio un po’ a cazzotti con Facebook, non so mai trovare i link giusti). Prova a buttarci un occhio. 🙂
Ah e, soprattutto, non sono schierati Alliata-Fatica (come ho visto da altre parti). 🙂
L’ho trovato e mi sono iscritto. Mi hanno accettato, anche se non ho fatto mistero di non essere un collezionista. Grazie per la segnalazione! 🙂
Nemmeno io sono un collezionista, e a volte posto cose fuori dall’ordinario. Ma mi hanno adottato lo stesso (e, per il momento, non ancora cacciato). 🙂
Ah, su Facebook mi trovi come Giacopo Figalberti (storia lunga e no, non è il mio vero nome). 🙂
Mi permetto di intervenire nella conversazione (ripromettendomi di leggere il tuo articolo sulla traduzione di Fatica). Personalmente, non trovo che gran parte delle critiche lasci il tempo che trova. Forse dipende dal fatto che non sono su Facebook – e quindi immagino di essermi risparmiata le cose peggiori, anche se un’idea di ciò che è stato detto contro Fatica ce l’ho. Ad ogni modo, ho visto critiche sensate emergere sempre di più. È vero che l’argomento ha suscitato polemiche sterili, ma è altrettanto vero che, visto il modo in cui la nuova traduzione è stata presentata e pubblicizzata, era impossibile che non si scatenassero delle discussioni accese (al di là del fatto che i mezzi di comunicazione odierni amplificano a dismisura qualsiasi polemica). Comunque sia, l’importante è che ci siano persone equilibrate e dotate di spirito critico, che hanno commentato la nuova traduzione senza lasciarsi influenzare troppo dal clima creatosi (che sembra esigere uno schieramento a tutti i costi, che sia dalla parte di Alliata o dalla parte di Fatica). E queste persone ci sono, eccome se ci sono, almeno per quello che ho potuto vedere…
Come non concordare, care Elle! Sono d’accordo su tutta la linea.
Ciao Kelo, in questo articolo ho trovato qualche nozione che avevo riportato in un mio articolo del 14 Novembre e che io stessa a fatica avevo scovato… Se mi hai usata come fonte sarebbe bello saperlo!
Ciao Sara!
Rispondo subito alla tua domanda indiretta: se così fosse stato, l’avresti indubbiamente saputo! 🙂
Ne faccio una questione di etica personale: come si vede anche in questo articolo, esplicito sempre le mie fonti. Anzi, per indole cerco di includere quanto più materiale esterno possibile (anche al di là delle fonti in senso stretto), perché mi piace condividere in qualche modo il mio percorso di scoperta. E inoltre, sostengo personalmente il Free Culture Movement (per cui la tematica mi sta particolarmente a cuore).
Potrei tranquillamente chiudere qui, ma mi piace scrivere papiri – e quindi la storia continua! 😀
Dunque, ovviamente sono andato a recuperare il tuo articolo – anzi, i tuoi articoli – e per prima cosa ti faccio i complimenti. Sia per lo stile, perché scrivi benissimo, sia per l’enorme lavoro di ricerca (che posso ben capire e su cui tornerò in seguito).
Intanto, riporto qui quello del 14 Novembre (La Fatica di Tolkien – 2. Analisi della Poesia dell’Anello.) e invito chiunque a leggere anche la prima parte introduttiva: La Fatica di Tolkien – 1. Storia della nuova traduzione e presentazione del mio progetto. Spero che arriverà presto anche il seguito.
Per inciso, avresti potuto includerli nel tuo commento – ma comprendo perfettamente il timore di essere mal vista, perché io a mia volta ce l’ho sempre. Anzi, proprio per questo ci tengo a specificarlo. 🙂
Mi ero già imbattuto nel tuo post, che all’epoca ho letto presumibilmente in maniera più distratta del dovuto. Non so bene quando né in quali condizioni, ma ricordo che mi sono rimaste impresse due cose: la tua ricerca delle accezioni di “lie” (una tale meticolosità non è da tutti, e personalmente la apprezzo) e la pronuncia di “Mordor” (che reputo errata per le ragioni che ho già riportato).
Peraltro, sono contento di risalire nuovamente a te perché proprio sulle occorrenze di “lie” ti ho citata inconsapevolmente in una diretta radio per “La Voce di Arda”, che riporto qui per amor di trasparenza (superando il mio imbarazzo per aver dovuto improvvisare un discorso di oltre due ore, a braccio, commettendo pure alcune imprecisioni): Le Poesie di Tolkien analisi e commento. Considerata la lunghezza, mi sono preso la briga di controllare il minutaggio (75:25). Come puoi sentire, ho palesato l’esistenza di una fonte pur non ricordandomi quale fosse – cosa di cui mi rammarico, ma che pure era la più vera e sincera. Le sole alternative sarebbero state (1) far passare qualcosa come farina del mio sacco (scorretto nei confronti della verità) oppure (2) non menzionare affatto l’aneddoto (scorretto nei confronti della conoscenza).
Tornando al grande lavoro di ricerca: ti capisco bene perché l’ho fatto anch’io, ma pressoché unicamente in lingua inglese – sapendo di non avere speranze di trovare il livello di approfondimento che desiderassi tra i risultati italiani. Ho scandagliato l’internet riesumando forum del web 1.0 e non mi stupirei se molte delle nostre fonti coincidessero. Ad esempio avevo già letto in uno di questi il suggerimento di collegare l’uso di “lie” alla poesia di Gil-Galad. In seguito invece sono riuscito a rintracciare anche le bozze che ho menzionato nell’articolo – tra le quali figura anche la prima stesura completa della Strofa degli Anelli, il cui ultimo verso recita: «In the Land of Mor-dor where the shadows are» (v. HoME, vol. 6, The Return of the Shadow, p. 269). Tuttavia, la stragrande maggioranza di queste informazioni l’ho tenuta fuori (volutamente) da questo articolo, focalizzato sulla metrica e sull’analisi strettamente testuale.
Ho riletto anche il tuo (stavolta con la dovuta attenzione), eppure non sono riuscito a capire una cosa: quali sono le nozioni di cui parli che hai ritrovato qui? Chiedo per pura curiosità! 🙂
Infine, ti ringrazio per il tuo commento (e per aver letto pazientemente anche questo). A presto! ツ
Avevo già letto l’articolo, naturalmente, ma non l’ho commentato perché volevo prima dare un’occhiata ad alcuni link che hai messo. Poi è passato il tempo… ed eccomi qui, con molto ritardo rispetto a quanto avevo previsto.
Come sempre, voglio complimentarmi con te per la tua competenza: sei molto bravo, sai ciò che fai – e si vede. Complimenti anche perché riesci a essere il più oggettivo possibile. Non nascondo che mi piacerebbe se ti soffermassi ulteriormente sulle traduzioni della poesia, tirando fuori una tua versione personale (o più), come hai fatto per “The Riddle of Strider”… ma suppongo che questo sia chiedere troppo 🙂
Comunque, sappi che in “Lettere 1914/1973”, possiamo trovare un’altra traduzione, sebbene incompleta: quella di Lorenzo Gammarelli. Probabilmente è la più letterale di tutte:
“Tre Anelli per i re degli Elfi sotto il cielo,
Sette per i signori dei Nani nelle loro aule di pietra,
Nove per gli Uomini mortali destinati a morire,
Uno per l’Oscuro Signore sul suo oscuro trono
Nella Terra di Mordor dove giacciono le ombre”.
Ecco qui, giusto per non farsi mancare nulla 😀 Tra l’altro, pure “Lettere 1914/1973” ha una sua vecchia traduzione (che io, però, non possiedo). Mi chiedo se anche in quel caso la poesia sia stata tradotta da zero, oppure se sia stata semplicemente riportata così com’è nella sua versione italiana più celebre. Chissà?
Ad ogni modo, sarebbe davvero utile se Quirino Principe si pronunciasse in merito alla Poesia dell’Anello: praticamente la metà del Web la attribuisce a lui, ma visto che Alliata ha raccontato di recente la propria versione dei fatti, bisognerebbe cercare di chiarire come siano andate veramente le cose…
Grazie, non sapevo della traduzione di Lorenzo Gammarelli! La trovo molto interessante, anche perché indirizza alcuni degli aspetti linguistici a cui che ho appena accennato nell’articolo.
Per quanto riguarda la tua proposta, sappi che la apprezzo molto e la terrò in considerazione. D’altronde, anche le opinioni soggettive possono essere interessanti!
E naturalmente ti ringrazio per i complimenti e per esserti presa del tempo per commentare, mi fa molto piacere. 🙂
Figurati, ti leggo volentieri, quindi il commento è praticamente d’obbligo^^
Non nego che talvolta sia difficile riuscire a starti dietro, per via della terminologia che usi (che è specifica del tuo campo), ma cerco di fare lo sforzo, perché ne vale la pena!
La traduzione di Gammarelli è letterale, altri pregi non ce l’ha, ma immagino che lo scopo era di rendere il significato e non poteva, per motivi di copyright, avvalersi della traduzione esistente (o non ha voluto, che pure trovo legittimo). Insomma, è una traduzione senza pretese di essere bella, musicale o altro. Quel che interessava è la fedeltà al testo di partenza. Ma il risultato finale non è di certo una poesia, ma solo un rendimento del suo significato letterale.
Per quanto riguarda la famosa versione e la sua attribuzione, anche a me piacerebbe sentire “l’altra campana”, cioè Quirino Principe. Non ho motivi di dubitare le parole di Alliata, ma vorrei sapere che cosa ne pensa il curatore della traduzione, appunto perché ci sono tante persone che attribuiscono a lui il risultato finale (e fino all’intervento di Alliata a Macerata anch’io la pesavo così).
Non penso ci fossero problemi di copyright, considerando che ci sono altri passaggi del volume in cui vengono riportate citazioni della vecchia traduzione de “Il Signore degli Anelli”, precise precise. Sono più incline a credere che sia stata una scelta di Gammarelli, probabilmente per cercare di veicolare il significato della poesia nel modo più aderente possibile all’originale (senza quindi voler puntare a una traduzione poetica). Mi è comunque parso interessante segnalare anche questa versione, per amor di completezza^^ Inoltre, trovo interessante che Gammarelli, al pari di Fatica, abbia scelto “aule” per tradurre “halls” (anziché “sale” o “saloni”, che dovrebbero essere le traduzioni più immediate, se così si può dire).
Sì, anch’io penso che ha scelto la traduzione letterale per rendere meglio il significato. Per quanto riguarda la traduzione di “halls” con “aule” è interessante, sì. Ma abbiamo anche le Aule di Mandos, o sbaglio? Potrebbe essere questo il punto di riferimento per tutti e due, ma non saprei.
Mi sono appena accorta che anche Zolla ha tradotto con “aule”… Quasi quasi vado a consultare un paio di vocabolari inglesi alla voce “hall”, e italiani alla voce “aula”! L’avevo già fatto in passato, ma una rinfrescata non guasta 😀
Bel articolo Kelo, ottimo lavoro 👍👍👍
P.s. Come avresti tradotto tu, la poesia dell’anello: trovare le rime e significato delle parole originali, anche il significato della poesia
Grazie! In realtà non mi ci sono ancora mai cimentato, ma non escludo di farci qualche esperimento prima o poi. Sarebbe curioso esplorare approcci alternativi, anche se in generale mi è piaciuto quello della “classica” versione Alliata/Principe.
Okay Kelo grazie mille per la tua risposta.
Ti mostro la mia versione della poesia dell’anello e voglio un tuo parere personale:
Tre Anelli agli Elfici Sovrani sotto il cielo,
Sette ai Nanici Signori nelle loro aule di pietra,
Nove agli uomini mortali che a morte vanno,
Uno all’Oscuro Sire sul suo trono tetro,
Nella Terra di Mordor ove l’ombre stanno.
Un Anello per dominarli , Un Anello per trovarli,
Un Anello per afferrarli e nella tenebra incatenarli
Nella Terra di Mordor ove l’ombre stanno.
A primo impatto, la tua versione mi sembra assimilabile (per “tipologia”) a quelle di Gammarelli e Zolla.
Dal testo emerge una piuttosto netta predilezione verso il contenuto (significato letterale e aderenza all’originale) rispetto alla forma poetica (metrica, rime e quant’altro).
Lo deduco, per esempio, dalla scelta di “Elfici Sovrani” e “Nanici Signori”. A mio parere in questo contesto ci sta: ti sei mantenuto più fedele alla costruzione inglese, senza risultare eccessivamente bizzarro in italiano (qui possiamo vagamente ricollegarci ai concetti di traduzione straniante e addomesticante).
A questo punto però, avrei osato un po’ di più, calcando la mano su questa strada e dando ancora più priorità al significato, anziché cercare un fantomatico compromesso.
L’esempio più evidente lo riscontro nel terzo verso: “che a morte vanno” lo interpreto come un chiaro tentativo di rimare con il quinto e l’ultimo verso, ma nell’economia del linguaggio da te scelto mi suonerebbe più appropriato qualcosa come “destinati alla morte” / “condannati a morte” o simili variazioni. Ah, sempre nello stesso verso, “Uomini Mortali” dovrebbe essere in maiuscolo, ma probabilmente si tratta di un semplice refuso.
Altri appunti terminologici minori:
* ad “aule” preferirei “sale” o “saloni”: non è certo un errore, ma “aula” ha un sapore più letterario, mentre la versione da te proposta valuta maggiormente l’aderenza testuale (salvo mia errata interpretazione). Anche il pronome possessivo “loro” non è sempre strettamente obbligatorio in traduzione (anzi, in alcuni casi è chiaramente controindicato: basti pensare alla frase “I wash my hands”, che suona più naturale come “Mi lavo le mani” e non “Io lavo le mie mani”);
* “afferrarli” si allontana un po’ troppo dal senso di “bring” in quel contesto. Sarebbe molto curioso discutere le accezioni di “bring” e “bind”, ma non posso farlo qui (e mi sono già dilungato troppo).
* qui vado sul gusto personale: preferirei “dove” per “ove” e “tenebre” per “tenebra” – potrei argomentare, ma lo trovo inutile: sulle scelte stilistiche non si può comunque parlare di giusto o sbagliato.
In conclusione, mi sembra tutto sommato un bel tentativo. Impossibile però non metterlo in relazione alle traduzioni già esistenti e, per quanto non mi piaccia fare confronti, continuo a preferire la versione Alliata/Principe.
Spero di averti dato qualche spunto interessante, fammi sapere che ne pensi! 🙂
Okay Kelo grazie mille per la tua risposta.
nel terzo verso: “che a morte vanno” ho cercato di tentare di rimare con il quinto e l’ultimo verso.
Per Uomini Mortali era un errore di battitura.
Grazie per il tuo parere su “Elfici Sovrani” e “Nanici Signori”.
Come potrei migliorare la mia traduzione Kelo?
E migliorare i famosi versi: One Ring to rule them all, One Ring to find them,
One Ring to bring them all and in the darkness bind them.
Fammi qualche esempio.
Spero che mi risponderai.
Se fosse sempre possibile migliorare una traduzione, probabilmente non avremmo avuto tutta la caterva di polemiche che hanno accompagnato l’uscita della recente edizione Bompiani e che hanno diviso ancor più nettamente il fandom tolkieniano.
Per migliorare bisogna innanzitutto stabilire in base a quali fattori, accettando che la traduzione non è matematica e alcune scelte non saranno mai definitivamente migliori o peggiori di altre.
Tradurre (o comporre) un verso è un’arte simile alla scultura: dopo aver creato uno scheletro, lo si affina e raffina per passaggi successivi, con la massima attenzione ai dettagli e al contesto (sempre sulla base delle priorità decise a monte).
Significa prima di tutto interpretare ogni singolo termine, poi cercare ogni possibile variazione terminologica, sonora, metaforica, semantica… sino a giungere alla soluzione che appare come il miglior compromesso possibile.
Per migliorare una traduzione ci va tanto studio e tanta pratica. Sarebbe bello poter infondere scienza e conoscenza in due righe (ti giuro è tipo il mio sogno da sempre ahaha) ma purtroppo non si può – così come io non potrei mai pretendere che un ingegnere della NASA mi spieghi l’astrofisica di uno shuttle nello spazio di un commento, soprattutto se ne capisco poco anche della meccanica di un’auto.
Questo per dire che vorrei tanto poterti aiutare e snocciolare qualche esempio al volo, ma commetterei una leggerezza: per scrivere questo commento ci ho messo 5 minuti, mentre per tradurre (al meglio) un verso particolarmente ostico potrebbero volerci delle ore.
Quando avrò abbastanza tempo da dedicare in futuro, accetterò volentieri questa sfida! 🙂
Ho migliorato io la tua versione della poesia dell’anello, Savio.
Vedete voi due Savio e Kelo se va bene:
Tre Anelli agli Elfici Sovrani sotto la volta celeste,
Sette ai Nanici Signori nelle loro petrose regge,
Nove ai Miseri Mortali dalle sorti funeste,
Uno all’Oscuro Sire che in tenebra troneggia
Nella Terra di Mordor dove l’Ombra riveste.
Un Anello per domarli, un Anello per trovarli,
Un Anello per ghermirli e nella tenebra incatenarli
Nella Terra di Mordor dove l’Ombra riveste
Devo solo migliorare la rima nel verso 2 e 3 ovvero di stone, throne.
Avete qualche idea per aiutarmi?
Sarò sincero, Atlas: non mi piace molto.
Mi sembra che questa versione voglia basarsi su quella Alliata/Principe, rispetto a cui però è carente sia nella musicalità che nel significato.
In ogni caso, ben venga ogni tipo di tentativo, perché solo così si può affinare l’orecchio e migliorare!
Non posso fare un’analisi traduttiva approfondita per ovvie ragioni di spazio (e tempo), ma un paio di criticità su cui potresti lavorare sono la scelta dei termini e l’armonia nel ritmo dei versi. Questi aspetti sono ben più importanti della rima, che è (in linea di massima) la proverbiale ciliegina sulla torta: sarebbe meglio concentrarsi prima su una buona torta, no? 🙂
Peraltro, trovare le rime è (almeno in teoria) la parte facile, perché di parole tra cui scegliere ne abbiamo tantissime; ma serve a poco, se il verso poi non regge.
Ti faccio un esempio sul caso che hai chiesto, “stone”/”throne”. Hai già un’ottima assonanza su cui lavorare “regge”/”troneggia”, ma se proprio volessi la rima perfetta potresti partire proprio da “reggia”. È possibile trovare almeno un modo in cui abbia senso usarla al singolare?
Risposta: sì! 😀
“nelle loro petrose regge” => “nella loro petrosa reggia”
Questo verso fa da trampolino per parlare di ritmo e scelte terminologiche!
1. Basta togliere una lettera per ottenere una cadenza regolare (come nella versione A/P): “nella lor petrosa reggia” (con accenti tonici sulle sillabe dispari, mentre quelle pari sono tutte atone);
2. Le parole “rocciosa” e “petrosa” sono molto simili dal punto di vista semantico ed equivalenti dal punto di vista metrico, ma non da quello sonoro. Qui subentrano anche delle valutazioni personali eh! Per esempio, io opterei per “roccioso” perché “petroso” dà di “petaloso” e, benché ami quella parola, mi sembra qui fuori contesto. Inoltre, “rocciosa” allittera con “reggia”, ha un suono più rotondo e ha la doppia “c” dolce che richiama la doppia “g” dolce di “reggia”.
Ultimo, ma non meno importante: il significato e l’effetto complessivo! Ad esempio, “dove l’Ombra riveste” si allontana ben più del necessario da “where the Shadows lie” e non suona molto naturale in italiano. In alcuni contesti, una costruzione meno immediata potrebbe avere ottime giustificazioni, ma il voler rimare a tutti i costi non può certo esser l’unica.
Spero di esserti stato di aiuto, se hai dei dubbi chiedi pure! 🙂
Devo solo migliorare la rima nel verso 2 e 4 ovvero di stone, throne.
Volevi dire.
Per me quasi okay.